In occasione della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio (10-11 settembre), l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha promosso una serie di iniziative per riflettere su un fenomeno sempre più drammatico nella società contemporanea: ogni anno, afferma l’Oms, un milione di persone si tolgono la vita. Il suicidio è un problema complesso e poco trattato e colpisce sempre più giovani che vanno dai 15 ai 34 anni.
Martina Boccalini ne ha parlato con la psicoterapeuta Michela Pensavalli:
D. – Secondo lei, si può associare l’incremento del tasso di suicidio alla situazione di crisi della nostra società?
R. – Assolutamente sì! Sono ragazzi che non hanno speranza nel futuro. I nostri centri si popolano di ragazzi che sviluppano depressioni e spesso disturbi del pensiero che portano poi necessariamente al decadimento della speranza. Sicuramente c’è una labilità caratteriale e personologica: non possiamo dimenticare la correlazione del disturbo ossessivo-compulsivo – quindi le idee ripetute nella testa – che gettano la persona nella paura. Molto spesso il suicidio è legato poi a questa idea e sofferente della mente. Non esistono in effetti solo alcune cause o una o poche; le cause possono essere molte. Fondamentale è anche il contesto nel quale la persona vive:il supporto della famiglia, ad esempio, la rete sociale, le associazioni di persone che vivono attorno alla persona, quanto e cosa possono fare e hanno fatto fino al momento in cui la persona magari ha compiuto un gesto che inizialmente è solo dimostrativo, che dichiara solo una sofferenza, come sono i tentati suicidi, che però esprimono una sofferenza. Quello che avviene molto spesso in queste famiglie è che per vergogna, per difficoltà di accettazione, si nega il dolore. Quindi, sicuramente ciò che si apprende in un percorso di terapia è la necessità di accompagnare la famiglia stessa ad accettare la sofferenza del membro stesso della famiglia, che la porta. Riguardo alla persona stessa che dichiara di avere idee suicidarie, è importantissimo intanto comprendere l’idea ossessiva che sviluppa la depressione, e quindi è significativo tutto ciò che viene raccolto per le richieste di aiuto, se il tentativo diventa poi l’unica strada percorribile. Ed ecco che allora è fondamentale poter trasmettere a queste persone che vi è una strada possibile. Va preso anche in esame che dalla sofferenza non si possa uscire, perché negare il dato di realtà significa rinnegare la sofferenza. E in questa nostra società, oggi, facciamo tutti quanti un po’ fatica ad accettare le sofferenze.
D. – Pensa che questo argomento sia poco trattato?
R. – E’ poco trattato, in effetti, rispetto a quello che le statistiche ci dimostrano nei dati concreti. Le famiglie non sono ancora tanto pronte a trattare l’argomento. Anche nelle scuole, per esempio, è difficilissimo trattare l’argomento suicidio perché le famiglie, ovviamente, tendono alla negazione, si spaventano e hanno paura dell’effetto-omologazione. Bisognerebbe fare assolutamente molto più informazione sull’argomento. Sicuramente va fatto un lavoro di prevenzione del suicidio: quindi bisogna avere il coraggio di parlare un po’ di più, di capire le radici che portano poi alla sofferenza umana. Quindi, una formazione in più punti alla dimensione fiduciaria della crescita dei giovani, con attività che sviluppino la capacità di riconoscere le emozioni, di narrarsi e – perché no? – anche l’accettazione dei limiti, delle fragilità: ci sono cose da obiettare, da rinnegare della nostra vita, ma le imperfezioni fanno parte della vita. Quindi, un’ideologia di accettazione dei limiti più o meno espliciti di ogni essere umano.
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