«Ho deciso di prendere un po’ di dramamina per non sentire più l’angoscia». «Sono nella mia stanza, da solo. Non so più cosa fare». «È una tortura». Ecco le emozioni raccontate in un diario dagli studenti del corso di giornalismo dell’Università del Maryland che hanno partecipato alla ricerca A day without Media: 24 ore senza connessione, smartphone, tablet. «Nel silenzio del campus — scrive uno studente — senza nemmeno musica». Né Google, Facebook, Twitter. L’indagine, realizzata dall’Icmpa, l’International Center for Media and Public Agenda, pone, ancora una volta, una domanda: Internet ci rende dipendenti?
Il Dsm-V, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, a cui «la Lettura» ha dedicato un articolo la scorsa settimana, non sa rispondere. Gli psichiatri dell’Apa, l’associazione professionale americana che lo redige, non hanno aggiunto l’Internet Addiction Disorder (Iad), la dipendenza dalla Rete, tra le nuove patologie, ma hanno suggerito studi ulteriori.
Non esistono criteri comuni per valutare la dipendenza, come rivela la meta-indagine quantitativa Internet Addiction: Metasynthesis of 1996-2006, studio condotto da un team di ricercatori internazionali sugli articoli pubblicati dalle riviste scientifiche e dedicati al tema. Conclusione: c’è un grande vuoto scientifico. Persino le indagini accademiche più autorevoli sono contraddittorie. Il caso emblematico riguarda l’Internet Paradox, realizzato dalla Carneige Mellon University di Pittsburg per descrivere le caratteristiche relazionali degli utenti di Internet. La prima versione della ricerca, del 1998, stabilisce una connessione tra l’uso della Rete e il peggioramento, nel breve tempo, dei rapporti face-to-face, con un incremento dei casi di depressione e solitudine. Ma la stessa analisi ripetuta nel 2002 e orientata a stabilire l’effetto di Internet sulle relazioni sociali a lungo termine, rivela che chi naviga e frequenta i social network è più inserito nei circoli, nelle associazioni, nei luoghi di ritrovo del posto in cui vive. L’unica continuità tra le due versioni dello studio riguarda la tendenza dei navigatori a una maggiore mobilità: cambiano città più spesso.
Chi è malato di Internet, allora? Chi si connette più di 8 ore al giorno, sostiene Kimberly Young, direttrice del Center for Internet Addiction Recovery e fedele seguace delle teorie del professor Ivan Goldberg autore, nel 1995, della definizione del disturbo da dieta mediatica (lo stesso psichiatra che a «Wired», l’anno dopo, confessò: «Sono tutte balle»). «Oltre al tempo ci sono dei sintomi chiari — spiega Young — sia fisici, come la sindrome del tunnel carpale o un repentino cambiamento di peso, che comportamentali: ansia, nervosismo, sensazione di astinenza. Secondo le nostre ricerche lo Iad riguarda un americano su 8. In Cina, Corea del Sud, Taiwan si tratta del 30% della popolazione digitale».
Per quanto riguarda l’Italia, invece, secondo il Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza del 2011, realizzato da Eurispes e da Telefono azzurro, quasi un ragazzo su 5 si sente irrequieto e nervoso quando non può accedere alla Rete e il 17,2% dei giovani ha cercato di ridurne l’uso senza riuscirci. La ricerca
Internet Addiction Disorder: Prevalence in an Italian Student Population, realizzata all’inizio del 2012 dall’Ospedale di Cremona e coordinata dal professor Roberto Poli, rivela che il 94,19% degli utenti Internet fa un uso normale del mezzo, il 5,01% è moderatamente dipendente, lo 0,79% lo è seriamente.
Ma come si calcola la dipendenza? Il test di valutazione di David Greenfield, fondatore del Center for Internet and Technology Addiction (il cui motto è: gestisci i media digitali prima che siano loro a gestire te) è fatto di 12 domande a rispostamultipla. Ma c’è chi critica l’approccio quantitativo. «I numeri non significano nulla — ha spiegato Vaughan Bell, ricercatore dell’Istituto di psichiatria del King’s College di Londra e autore di Mind Hacks. Tips and Tricks for Using Your Brain —. L’Internet Addiction Disorder non esiste e non esiste nessuna evidenza scientifica per cui a una connessione prolungata debba corrispondere una malattia mentale. Se leggo parecchi fumetti sono forse comics-dipendente? Il punto è che la stessa definizione di dipendenza da Internet rivela una cattiva comprensione di cosa davvero sia Internet».
«Il web è un pezzo di vita — spiega Federico Tonioni, responsabile dell’Ambulatorio per le dipendenze da Internet del Policlinico Gemelli —. Non si può dire che esistono persone dipendenti… dalla vita». Siamo, in sostanza, tutti parte della società incessante, come scrive Tonino Cantelmi nel libro Tecnoliquidità, in uscita a dicembre: «Incapaci di staccare la spina, sempre lì a digitare, a twittare, a condividere, senza differenze tra giorno e notte, feriale e festivo, casa e ufficio». Chi perde il controllo, il più delle volte vive un problema pre-esistente.
«In tre anni — spiega — sono venute da noi oltre 550 persone. Il 20% sono adulti e l’80% giovani. Gli adulti si muovono in contesti poco interattivi e ripropongono dipendenze già note, dal sesso o dal gioco d’azzardo, solo ampliate dalla Rete». Nei ragazzi la situazione è diversa. Hanno tra gli 11 e i 23 anni, intelligenti, timidi. «Vivono relazioni prive di corpo — spiega Tonioni —. Nelle chat o nei giochi online non puoi né colpire né baciare per davvero. Lo schermo è uno scudo protettivo». I genitori, «immigrati digitali», non capiscono i figli «nativi», e pensano di dover curare una dipendenza mentre spesso si tratta di altro. «Indaghiamo il loro disturbo affettivo, relazionale. Non c’è una terapia con un tempo determinato. Chi guarisce comincia a uscire con una ragazza, a praticare uno sport — conclude Tonioni —, ma non diciamo mai di spegnere il computer».
Un monito che, invece, arriva proprio dalla Silicon Valley. «Log off!» (disconnettiti), consiglia Stuart Crabb, responsabile del settore Learning and Development di Facebook, tra gli speaker della prossima edizione di Wisdom 2.0. Non una conferenza ma una vera e propria esperienza, durante la quale manager e direttori di Google, Microsoft, Facebook, Twitter, eBay, praticano yoga e discutono di consapevolezza e benessere psicologico. L’obiettivo di tutti i partecipanti, secondo l’organizzatore Soren Gordhamer, è coniugare saggezza e sviluppo tecnologico, serenità e mutazione. Ecco, in sostanza, il tema chiave: piuttosto che concentrarsi sulla dipendenza da Internet, è utile studiare il cambiamento, le opportunità e le minacce che comporta. «Siamo alle soglie di una mutazione antropologica — spiega Cantelmi — fenomeni che chiamiamo patologici vanno compresi all’interno di questo cambiamento». Internet, allora, non ci rende malati. Ma solo diversi. Una trasformazione impossibile da indagare con una tabella oraria.